Che nessuno dica: “ma che mi importa degli altri”

Speriamo che i giorni di reclusione ci abbiano fatto venire qualche idea buona in proposito...

Formazione.
Formazione.

Tra ironia e barzellette sui social, titoli di articoli sui giornali più o meno divertiti, “Homo homini virus”, “corona virus o coronavirtus?”, “in virus veritas”, la pandemia si diffondeva nel mondo con spietata rapidità. Essa è una metafora di ciò che già da molto tempo non funziona nel nostro pianeta Terra. Ora, a livello mondiale, si vedrà come le persone al potere, saranno in grado di rispondere a questa emergenza di enorme sofferenza per tutti, indistintamente. Poi, una volta passata, speriamo, non comincino un’altra guerra, dandosi la colpa l’un l’altro, sul perché, sul come e su ciò che non ha funzionato nell’emergenza; che nessuno si approfitti della situazione per garantirsi meriti e vantaggi, come succede alla fine di tutte le guerre.

Drogati dal mantra della crescita permanente e dei profitti illimitati, non continuino a rovinare la vita dei più poveri. Ad ogni modo, la pandemia che non conosce né confini né regole, si è già presa gioco di loro. Continueranno diseguaglianze, povertà, catastrofi ambientali, riscaldamento globale, mercato delle armi, guerre,…? Tutti campanelli di allarme di una sciagura imminente e che non sono stati ascoltati. I governi hanno l’obbligo di trovare una ricetta per scongiurare un altro collasso totale e tutti avranno l’obbligo di reinventare un modello di vita più giusto e più equilibrato.

Speriamo che i giorni di reclusione ci abbiano fatto venire qualche idea buona in proposito e ci abbiano fatto fare qualche esperienza positiva in questo senso, per uscirne più compassionevoli l’uno con l’altro e a cercare “luoghi dove andare, ricordando quando siamo stati costretti a restare dove siamo”; per controllare l’ansia, reazione immediata e innata del cervello davanti all’incertezza. “E quando la curva del contagio scenderà e i governi annunceranno che ce l’abbiamo fatta, per favore, non tornate all’immortalità, non indossate più l’abito da invincibili, intransigenti, insopportabili, non dimenticate quello che avete provato. Per favore siate vulnerabili per sempre, continuate a cantare dai balconi, continuate ad applaudire alle donne delle pulizie, alle cassiere, alle vostre madri. Non dimenticate che siete solo umani, che siete fragili, che siete feriti e prendetevi cura della vita del pianeta e di tutti gli esseri del mondo, fino al giorno della morte, come se aveste imparato qualcosa” (Juls Heme). Riusciremo a trovare una corona di virtù contagiose: speranza, solidarietà, gioia, accoglienza…e iniziative individuali e collettive per inventare nuove forme di condivisione responsabile e creativa e alleviare gli shock sociali ed economici, per sostenere i sistemi sanitari più deboli? Non ci si abitua mai alla sofferenza, alla miseria, alla morte… I poveri non si abituano, anche se il dolore è il loro compagno di viaggio tutti giorni.

Diciamo “ma che m’importa degli altri” o diciamo “I Care”? La missione è la vita, si va in missione non per convertire gli altri ma per convertirsi.  Quando siamo noi che soffriamo ci sembra anacronistico e inopportuno parlare o che qualcuno venga a parlarci  della sofferenza di altri, dei lontani da noi, dei dimenticati, di quelli che qualche volta ricordiamo e aiutiamo quando stiamo bene. Ma condividere la sofferenza e il poco che abbiamo con chi ha ancora meno, questa è carità cristiana. Un anno fa Idai e Kenneth misero in ginocchio il Mozambico. Ora prova a rialzarsi con l’aiuto specialmente di organizzazioni non governative e “Medici con l’Africa” (CUAM). Molti sono costretti a sperimentare un’altra vita, da pescatori diventano agricoltori. Quello che non ha distrutto l’incuria lo hanno distrutto i due cicloni con raffiche di vento che superavano i 280 km orari. Ufficialmente, sono morte 750 persone. Sottovoce girano altri numeri: gli “scomparsi” sono più di 10 mila, gli sfollati molti di più. I cicloni hanno distrutto le strutture mediche ed è aumentata la mortalità infantile e il colera. Oltre 50 mila persone , rimaste senza tetto, hanno accettato di essere “ricollocate” altrove dallo Stato, che è l’unico proprietario terriero. Ora, nel nord del Paese, nella provincia di Cabo Delgado,  infierisce la guerriglia e anche i nostri missionari Cavanis e le suore di Macomia con la popolazione, hanno dovuto fuggire e cercare aiuto in un’altra città.

P. Diego Spadotto CSCh

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