Ogni essere umano impara fin da bambino il linguaggio delle relazioni interpersonali e comunitarie, sulla base di alcune modalità di trasmissione dell’amore da parte degli adulti. Ogni bambino, poi, registra a modo suo, e ricambia secondo il “linguaggio” con cui ha registrato, sicuro che anche l’altro parli lo stesso “linguaggio”, ma non è così. Per questo che, una volta diventati adulti, le relazioni possono non svilupparsi bene, perché non si usa l’uno il linguaggio di relazione dell’altro.
Se ciascuno usa il suo linguaggio affettivo e culturale, può darsi che l’altro non riesca a recepire, perché è sintonizzato su un’altra modalità. Questi sono i linguaggi fondamentali delle relazioni:
1) Parole e atteggiamenti di fiducia e rassicurazione.
2) Momenti di vicinanza e ascolto.
3) Doni, non regali, piccole cose personalizzate.
4) Gesti di servizio e aiuto.
5) Gesti di affetto e stima.
Ogni linguaggio va adattato al tipo di relazione e usato con naturalezza, discernendo se funziona, allo stesso modo, in tutte le culture, come funziona nella propria cultura. Nella formazione all’interculturalità occorre osservare, chiedere, provare, per impegnarsi a usare il linguaggio di relazione adatto alla persona dell’altro, questo fa maturare se stessi e le relazioni.
Ognuno riceve “amore” nel linguaggio che riesce a comprendere: la porta delle persone si apre solo con la chiave adatta alla loro storia, alla loro cultura, non esiste il passepartout. Le relazioni interpersonali e comunitarie nella multiculturalità richiedono calma creativa. Ma il nostro tempo é troppo veloce. Inoltre, “la manu-tenzione delle sane relazioni si fa con gli strumenti giusti, altrimenti, pur con tutte le buone intenzioni, l’improvvisazione e la routine ne diventano la fatale mano-missione”.
Un esempio: “Sono arrivato in Sud Sudan a Juba a gennaio del 2015, dove abbiamo l’unica casa dei Frati Minori del paese. All’inizio eravamo 5 frati, due dall’Italia, uno dalla Slovacchia, dall’Australia e dagli Stati Uniti. Insieme gestiamo una parrocchia abbastanza grande, che comprende villaggi molto distanti dalla capitale.
Ci impegniamo ad offrire uno spazio, sereno, non violento dove chi viene da noi abbia la possibilità di trovare un angolo di serenità all’interno di una vita difficile”. In questo esempio si evidenzia che i membri della comunità religiosa sono di culture e etnie diverse, vivono in un Paese che non è quello di origine e in una missione di accoglienza di quanti soffrono, usando il “linguaggio” cristiano della gratuità.
E’ un miracolo, un dono del Signore, impegnarsi ad amare gratuitamente per tutta la vita, come se si chiedesse a un albero di dare frutto in tutte le stagioni. I consacrati sanno che non ci sono due amori, amore di Dio e amore al prossimo, come non ci sono due vite, una nel tempo e l’altra eterna. Solo i gatti hanno sette vite, noi ne abbiamo una sola. La nostra professione religiosa ha impegnato Dio tanto quanto noi stessi: “Signore tu mi hai detto, come a Pietro, di camminare sull’acqua…allora tocca a te far in modo che l’acqua mi sorregga”.
Non meritiamo niente, ma non è una ragione per non chiedere a Dio quello che ci ha promesso: “chiedete ed otterrete”. Signore, donaci ancora ciò che ci hai già donato; fa che riviviamo ancora la forza di quella parola del Vangelo che una volta ci ha convinti a seguirti. Ma spesso Dio dice di no, non ci ridona una grazia passata.
Non ci si bagna due volte nella stessa acqua. Dio ha sempre qualcosa di meglio da proporci, il meglio deve sempre arrivare. Il futuro che spesso noi sogniamo è come quello preso in considerazione dalle Compagnie di assicurazione. Il futuro di Dio è l’avvenire, ciò che sta per venire e che sempre ci sorprenderà, se aspettiamo vigilanti.
La speranza cristiana si radica solo sull’avvenire, nell’accogliere il regno di Dio che viene e che, come il profeta Elia, riconosciamo solo di spalle…dopo che è passato. Figli di questo tempo nel quale sappiamo tutto di persone lontane e niente di chi ci sta accanto, “Abbiamo imparato a mentire per poco/ ad adattarci all’aperta ingiustizia/ Era fatta violenza all’inerme/ e restavano freddi i nostri occhi” (D. Bonhoeffer).
P. Diego Spadotto, CSCh