In un mondo che cambia come cambia la vita di comunità? Insieme ma soli?

Preparazione per il Capitolo Generale 2019.

Nella vita delle comunità religiose, sta succedendo sempre più spesso quello che succede anche nella “migliori famiglie”: ciascuno si occupa delle proprie cose, con relazioni minime con gli altri membri della famiglia o della comunità, mentre verso l’esterno c’è un’attività frenetica. 

È come se ciascuno avesse una specie di doppia personalità: estremamente sociale, simpatica al di fuori, ma chiusa in comunità. 

Tutti ne soffrono di questa situazione ma nessuno sa cosa fare. Giovani e meno giovani si chiudono nelle proprie stanze, non appena possono. Qui, davanti a cellulare e computer si apre un mondo, anche bello: si naviga tra notizie di attualità, scambio di chat, Skype con la propria famiglia o con gli amici. 

Dentro la propria stanza c’è un intero mondo relazionale, invisibile a chi sta intorno, ma reale.

Oppure, ci si dedica appassionatamente ad altre attività anche buone…ma fuori della comunità, e mentre fuori la persona è una sorta di eroe “faccio tutto io”, dentro la sua comunità si spegne. Una forza centrifuga allontana dalla propria comunità.

I capitolari sono a conoscenza che, a parte le comunità di giovani in formazione o le comunità di religiosi anziani, la maggior parte delle nostre “comunità religiose” sono formate da due o tre religiosi che spesso abitano in case enormi o in parrocchie molto lontane da altre comunità religiose Cavanis. 

Quale vita comunitaria è possibile in due o tre persone in un mondo che cambia nella percezione del tempo, nella velocità delle trasformazioni e nell’organizzazione della vita apostolica? L’organizzazione della vita di comunità di tipo “monastico” come è presentata nelle Costituzioni è ancora possibile?  La vita comunitaria è ancora attraente? 

La comunità religiosa è tale proprio grazie ai legami che la rendano comunità di discepoli di Gesù inviati ad evangelizzare. Si ha l’impressione che il modo di pregare, il modo di stare insieme, il modo di fare pastorale perfino il modo di svagarsi non corrisponda ai desideri e alle esigenze dei suoi membri e nemmeno sia evangelizzazione e testimonianza del Risorto. I consacrati vivono secondo uno stile che non piace a loro stessi e nemmeno al popolo di Dio, il che è piuttosto paradossale.

Oggi ogni gruppo sociale, mosso da qualche ideale, soffre di un indebolimento dell’aspetto comunitario. Forse questa é la grande sfida della vita consacrata in comunità: credere di più in se stessa, ripensare con visione di futuro che la propria “comunità” possa migliorare se ciascuno diventa più credibile, perché il vivere insieme é parte integrante della vocazione, non un dettaglio, che deve sottomettersi alle esigenze di ciascuno. Forse si dà per scontato che una stessa vocazione renda automaticamente il vivere insieme una fraternità, invece non è così.

I capitolari dovranno chiedersi: se i religiosi credono che sono responsabili della vita di comunità per causa di Gesù, e dov’è finita la loro vita di comunità sana e salutare? Perché spesso il rapporto interpersonale che lega i membri della comunità tra loro è indefinibile, adolescenziale, formale, di indifferenza e sofferenza reciproca e molto poco cristiano e responsabile? Come formare alla vita di comunità a partire dalla realtà odierna? La vita in comune ha ancora un senso in se stessa anche se siamo due o tre? Cosa ci si attende da essa?

P. Diego Spadotto, CSCh

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