La Vita consacrata, davanti ai tanti errori storici del passato, ha fatto più di una volta il “mea culpa”. Questo stesso atteggiamento viene chiesto anche ai religiosi di oggi. Viene chiesta una riforma, che non consiste in parole, ma in atteggiamenti che abbiano il coraggio di entrare in crisi, di accettare la realtà qualunque sia la conseguenza. E ogni riforma comincia da sé stessi. È l’unico cammino, altrimenti non siamo altro che “ideologi di riforme” che non mettono mai in gioco la propria la loro propria vita.
“Il Signore non ha mai accettato di fare “la riforma” né con il progetto dei farisei, né con quello dei sadducei. Ma l’ha fatta con la sua vita, con la sua storia, con la sua carne sulla croce”.
I silenzi, le omissioni, il dare troppo peso al prestigio delle istituzioni hanno condotto la vita consacrata solo al fallimento personale e storico, e l’hanno portata a vivere con il peso di “avere scheletri nell’armadio”. È urgente “esaminare” la realtà degli abusi e lasciare che lo Spirito ci conduca al deserto della desolazione, alla croce e alla resurrezione. Il punto di partenza è la confessione umile: ci siamo sbagliati, abbiamo peccato. Non ci salveranno le inchieste né il potere delle istituzioni. Ci salverà la vergogna guaritrice che apre le porte alla compassione del Signore sempre vicino. Chiediamo la grazia della vergogna.
La mancanza di fede coraggiosa che ci fa vivere “senza vergogna”, si chiama peccato. I coraggiosi, sono coloro che hanno paura eppure fanno quello che devono fare, si vergognano, ammettono i loro errori, chiedono perdono e pagano di persona. Questa vera vita spirituale non è per rammolliti, ma nemmeno soltanto per i forti e gli eroi, è per tutti quelli che si lasciano riconciliare con l’amore misericordioso del Padre e imparano a leggere il volto dell’altro e scoprivi l’immensa sofferenza che hanno provocato.
Il coraggio cristiano non teme la croce, non teme di umiliarsi di fronte alla tremenda realtà del peccato. È stata una catastrofe la triste storia degli abusi sessuali e il modo di affrontarlo che ha adottato la Chiesa fino a poco tempo fa. Rendersi conto di questa ipocrisia nella vita di fede è una grazia, è un primo passo che la vita consacrata, con i religiosi che hanno abusato, deve compiere. I religiosi devono farsi carico della storia, sia personalmente sia comunitariamente. Non si può rimanere indifferenti dinanzi a questo crimine. Accettarlo presuppone entrare in crisi. Anche se non tutti, purtroppo, vogliono accettare questa realtà, essa è l’unico cammino- Fare “propositi” di cambiamento di vita senza “mettere la carne sulla brace” non porta a nulla e peggiora le cose.
Le realtà personali, sociali e storiche sono concrete, non sono idee, le idee si discutono (ed è bene che sia così), ma la realtà deve essere sempre accettata ed esaminata. Le situazioni storiche devono essere interpretate con l’ermeneutica dell’epoca in cui sono avvenute, ma questo non ci esime dal farcene carico e dall’accettarle come storia del “peccato che ci assedia”.“Ti domando due cose, Signore, non negarmele prima che muoia: tieni lontano da me falsità e menzogna…” (Pr 30, 7-9).
Una congregazione che non facesse propria questa preghiera, sarebbe una congregazione che, anziché svelare il volto evangelico di Dio, lo oscura. Peccato grave, non semplicemente incoerenza morale. La chiarezza si avrà solo con una lenta maturazione della vergogna, non con la violenza della ragione che autogiustifica. C’è gente che galleggia tutta la vita alla superficie di se stessa. Anche nella vita religiosa ci sono individui impigliati in scelte sbagliate, inchiodati, paralizzati in un passato oscuro.
Sono i torturatori di se stessi. Non sanno e non vogliono vergognarsi, continuano a giustificarsi. Ma se non si vergognano saranno sempre intossicati dal male. Le colpe non si rimuovono. Devono essere riconosciute con vergogna. “Signore tu hai fatto tante cose belle con le mie esperienza sbagliate… Non è la strada che è impossibile, ma l’impossibile è la nostra strada” (Sant’Agostino). Non c’è nella vita una verità alta che non porti le stigmate, che non conosca la sofferenza di una lunga ricerca di vergogna e di perdono.
P. Diego Spadotto, CSCh