Papa Francesco, parlando di don Bosco, disse che “Don Bosco non era un santo dalla faccia da “venerdì santo”, triste, musone… Ma piuttosto da “domenica di Pasqua”. Era gioioso, accogliente, nonostante le mille fatiche e le difficoltà che lo assediavano quotidianamente. Del nostro P. Marco Cavanis i suoi ex allievi hanno testimoniato che «il suo volto raggiante di gioia manifestava, come sempre, la propria contentezza nel trovarsi tra i suoi figli». Non a caso per lui la santità consisteva nello stare “molto allegri”.
Possiamo definire P. Marco un “portatore sano della gioia del Vangelo”. P. Mario Zendron fa di P. Marco questo simpatico ritratto: “Quel birbo di Pre Marco”, birbo, allegro, vivace nel trovare il lato giocoso in ogni avvenimento.
“Che Pre Marco – come di tanto in tanto amava scherzosamente chiamarsi – sia stato, in vita, anche un “birbo”, lo dice egli stesso apertamente senza mezzi termini. Un birbo che nel caso suo significa persona piena di buon umore, piena di voglia di dar sfogo al suo prorompente carattere con la battuta, con l’aneddoto, per infondere sempre ilarità, gioia, ottimismo in qualunque circostanza; ma anche persona dotata di una giusta furbizia nel trattare i vari problemi con i quali dovette confrontarsi. Egli li seppe affrontare senza affogare e con una grande fede nella Provvidenza, fermamente convinto che per risolverli “ci vuol altro che un po’ di ciarle e passi; ci vuole la grande benedizione di Dio” (EM V 154).
Trattava i confratelli, i maestri, i ragazzi come amici, senza supponenza né arroganza, considerandosi ultimo di tutti anche se era il Fondatore e vero “braccio costruttore” della Congregazione.
- “Come e dove riuscì P. Marco a racimolare tanti aiuti per far funzionare la Scuola e la Congregazione? Prima di tutto a Venezia da benefattori locali. Ma questa fonte, ad un certo punto, mutate le condizioni politiche e di conseguenza anche quelle economiche, si disseccò. Lo fa presente in modo scherzoso: “oh che caldo! Oh che freddo! Come volete che io non sia sbalordito? Girare tutta la mattina(a Venezia)sotto la sferza del sole che mi a ridotto una bragia, girar senza frutto e aver le scarselle vuote di soldi mi stringe il cuore di gelo” (EM II 291). Si rivolse allora altrove… Non si lasciò sfuggire nessuna occasione per tendere la mano in favore della sua opera. Anche se si affidò con serenità di spirito alla Provvidenza Divina, cerco in qualche modo di “forzarle un pochino la mano”, con la preghiera prima di tutto, e poi dando via libera alla propria furbesca inventiva. Se il problema di reperire denaro fu vivamente sentito e affrontato con senso di responsabilità, non fu mai drammatizzato. P. Marco trovava il modo di mettere la cosa sul piano del buonumore, della facezia: “adesso sì che ho trovato il segreto per far bezzi e risparmiar le mie gambe. Mai più a Venezia, mai più. Là non si trovano soldi e si rompono i piedi senza profitto. Il gran segreto è venir in campagna e tutto allora va a meraviglia” (EM II 305).
- “Poteva essere anche vero ma bisognava aver l’occhio di lince e il fiuto da segugio per mettersi sulle buone tracce. Un fiuto che sarà la causa di qualche “birbonata”. Ecco quella che forse è stata l’ultima, architettata durante i suoi viaggi, ma certamente non l’unica. P. Marco si trovava a Trento per la seconda volta, era l’anno 1849. E… “Adesso che l’ho fatta la dico! Essendomi pervenuto all’orecchio che in Arco abita una dama il cui marito or defunto era Dinasta (Principe) di quella terra, ad essa (la dama) se ha perduto il fumo del Principato, tien però l’arrosto di molti beni, ho rivolto pronto la mira verso colà. Per andarvi certo ci volea non poca spesa… e tosto appariva debole il borsellino che in lingua latina chiamasi marsupium perché si suda e si suppia (si soffia) quando si spende. Ma per questo mi son forse avvilito? Ma no, perché senza voler superare difficoltà non si fa niente di bene, e convien farla da morti prima di morire…”.
- “La Provvidenza non stava a guardare dalla finestra, ma seppe intervenire a tempo debito: “or discorriamo di cose allegre. Da chè sono a Vicenza mai e poi mai a pranzo sulla locanda andrò. Immaginatevi! Non ho altro che fare e vo affilando l’ingegno per vedere dove posso pranzare onoratamente e così colle mie fatiche sto guadagnando il mio pane: Martedì dunque sono stato dall’ab. Iseppi; Mercoledì alla tavola di monsignore; Giovedì nuovamente dal cordialissimo Iseppi; Venerdì ho fatto il zingano perché veramente né qua né là il bel colpo, mi sono dunque fatto vedere in ora piuttosto critica dai buoni Padri di Monte Berico e questi mi hanno cortesemente obbligato a restare a pranzo con loro; Sabato mensa col delegato; Domenica biglietto di ingresso nel refettorio degli ottimi filippini” (EM III 315).
- Non c’è pace! Sempre in moto! Sempre a parlare! Sempre a scrivere! Solo un attimo per sbirciarsi allo specchio e… “Povero Pre Marco! quanto ha mai da durarla a far il mestiere del ciarlatano, sempre sull’atto di cantar la storia dei pargoli sulle piazze e di raccontare a Venezia le avventure dei viaggi. Ho pure girato ormai nel Regno e fuori del Regno, nell’Italia e fuori della Italia, nell’impero e fuori dell’impero, 5 volte a Milano, più volte a Mantova, una volta a Modena, una a Torino, tre volte a Vienna, una all’augusta metropoli del Cattolico Mondo e non siete ancora contenti? Non basta ancora. Eccomi dunque a toccar nuove terre e dar fiato di nuovo alla sonora mia tromba” (EM VI 628). Non disarma e ricomincia! “Lettere, lettere! Adesso ne sentiremo di belle”, scrive: “dirò come diceva quel bell’ingegno: vi scrivo questa lettera ancora vivo, mentre credea di scriverla essendo morto. Quando fui presso a Monselice tanta era la fame che mi divorava le coste, in forza dell’aria fina e del correre assai veloce, che io mi credea di morire,.. perché al mio arrivo a Monselice non era suonato il mezzodì, se non nelle mie budelle come spesso suonava in quelle di Truffaldino. (EM III 442).
- Gli anni passano. Il buon umore invece è sempre lo stesso: “Ho detto di essere quasi vecchio perché le sette decine degli anni miei a dir vero non mi pesano niente e se trovassi un bel sacchetto di soldi per la mia dilettissima Congregazione, sarei ancora più vegeto e robusto nel caricarmi del dolce peso” (EM VI 390). “Ormai del povero Pre Marco non ne vogliono sapere più né gli uomini né le bestie… Quanto agli uomini l’argomento è chiarissimo… Le bestie poi certamente anch’esse mi vedono di mal occhio, perché appena arrivato in terra (ferma) strappo il cavallo che pascola all’ombra tranquillamente e lo sforzo a faticar e a correre… Che posso fare io pertanto in questo abbandono? Non altro certo se non girare il mondo alla cieca fino che trovi almeno per accidente qualche creatura che abbia pietà di me”(EM V 477).
P. Marco è vissuto nelle “periferie umane, esistenziali e sociali” di una Venezia in decadenza, nella prima metà dell’800. Che Cavanis bisogna essere per i giovani, le famiglie e il mondo di oggi? I nostri Fondatori e la Chiesa, ci chiedono di essere uomini concreti, sereni, fiduciosi nella Provvidenza; umili “operai nella vigna del Signore”, che non cercano il successo ma la serenità del cuore per tutti. Uomini che sanno vivere gioiosamente con i ragazzi, e umilmente con i laici collaboratori; uomini padri non padroni che sanno guardarsi attorno, che vedono le situazioni critiche e i problemi, e li affrontano e analizzano con discernimento evangelico, che prendono decisioni coraggiose ma non prepotenti, che curano le ferite dei confratelli e di tanti bambini e giovani con lo stile di P. Marco. Uomini educatori di se stessi in primo luogo, che abbracciano le fragilità degli altri come buoni samaritani.
P. Diego Spadotto, CSCh