Quale ridimensionamento?

Ridimensionare non è semplicemente “chiudere un’attività o una comunità” o fare un’ammucchiata di religiosi in una sola comunità.

Nella sua lettera del 2 maggio 2022, il Padre Delegato, invitava tutti i confratelli a “iniziare una condivisione sul ridimensionamento di questa parte territoriale”. Secondo il Padre Delegato le cause che motivano, con una certa urgenza, il ridimensionamento della Delegazione Italia-Romania sono: “numero di confratelli ridotto al massimo, resistenze e distanze non superate tra confratelli, invecchiamento delle persone (religiosi e laici collaboratori), impossibilità di poter contare con l’aiuto immediato dei giovani confratelli di altre parti territoriali, burocrazia sempre più soffocante, famiglie in crisi, secolarizzazione, ecc. Nell’attuale contesto, non potendo contare con un inserimento immediato, strategico e qualificato di molti laici, perché non li abbiamo preparati a tempo, ridimensionare è, purtroppo, sinonimo di rivedere o interrompere qualche servizio o attività”. 

Tra le cause che motivano il ridimensionamento nella Congregazione e nella Delegazione, forse, ne mancano per lo meno tre che ritengo importanti ai fini del ridimensionamento: l’indebolimento complessivo della spiritualità congregazionale, nelle motivazioni legate ai trasferimenti dei religiosi da una parte territoriale all’altra o dentro la stessa parte territoriale; la mancanza, nei trasferimenti dei religiosi avvenuti in questi anni, da una parte territoriale all’altra, di adeguata preparazione spirituale,comunitaria e culturale; terzo motivo, non si è preso in considerazione che non tutti i religiosi sono adatti e capaci di un adattamento culturale e missionario, quando inviati in altre parti territoriali.

Per il loro bene e per non far fallire i tentativi di ridimensionamento, è meglio non inviare persone non preparate, specialmente quelle che hanno un deficit di senso di appartenenza alla Congregazione o alla loro parte territoriale. Se ne andranno appena possibile. Casi particolari, sono i trasferimenti per motivo di “studio”. 

I “trasferimenti” o “invii” di confratelli da una comunità all’altra e da una parte territoriale all’altra per motivi di studio o di missione, fanno parte del tema “ridimensionamento”. Questi “trasferimenti” devono essere preparati e non improvvisati, le persone coinvolte, specialmente quando il trasferimento è in una parte territoriale con lingua e cultura differenti dalla parte di origine.

Bisogna evitare che il trasferimento sia semplicemente legato al “far numero minimo”, o al semplice “fare” un certo lavoro. Se un religioso, invitato a un “trasferimento” chiede: “devo andare in quel posto a fare cosa?”, tradisce se stesso e mostra tutta la sua inadeguatezza alla missione e alla costruzione della comunità.

Le motivazioni dei “trasferimenti” dovrebbero essere religiosamente chiare per tutti, per chi è trasferito e per chi riceve un nuovo confratello. Si è inviati, in primo luogo, per costruire comunità religiosa Cavanis. Ci sono religiosi, magari ottimi per “lavorare”, ma che non hanno attitudini per costruire comunità, sono individualisti, problematici, negativi, senza motivazioni e formazione spirituale, propensi a dividere piuttosto che a unire. Lungo il cammino di formazione quali sono i momenti forti che formano veramente alla vita comunitaria? Preghiera comune? Carisma? Refezioni? Incontri?

Ridimensionare non è semplicemente “chiudere un’attività o una comunità” o fare un’ammucchiata di religiosi in una sola comunità. Prima di ridimensionare le strutture bisogna che i religiosi “ridimensionino” le loro esigenze autoreferenziali, il modo di fare “pastorale” ormai ridotta al culto, il tempo dedicato alla vita spirituale e alla preghiera personale che è sempre più stanco e affrettato, ritrovino il senso e il valore della vita di comunità. Se le persone si auto ridimensionano sapranno come ridimensionare le “opere” e il Signore “le libererà dall’ipocrisia e dalla spiritualità delle apparenze” (Francesco). Durante la pandemia, anche tra i religiosi, c’era chi sospirava e diceva: “quando finirà, torneremo alla normalità, come prima”, altri invece dicevano che “nulla sarà come prima”.

Oggi è più realistica la seconda ipotesi. In questa Delegazione, speriamo non ci sia nessuno che tenti di sopravvivere alle fatiche interne, alla mancanza cronica di vocazioni e all’invecchiamento, desiderando che tutto “torni come prima” o che pensi che basti chiudere una “casa” o aggiungere un religioso in più in una comunità. Siamo un “piccolo resto” che può mostrare come sia possibile, essere un piccolo numero e tuttavia portare frutto e aiutare a scoprire il futuro per tanti giovani. La nostra vita di religiosi non deve essere orientata alla solo alla produzione ma alla fecondità vocazionale.

I religiosi della Delegazione si concentrino interamente nella missione della Congregazione: trasmettere il Vangelo e il tesoro del carisma ai giovani e che il Signore invii operai alla sua messe. Sono essi che ringiovaniscono costantemente la Congregazione, perché “il cambiamento è l’unica cosa permanente e l’incertezza è l’unica certezza”. Siamo chiamati a prendere sul serio le domande dei giovani, ben prima di dare risposte. Talvolta bisogna accettare perfino di non averne, almeno di preconfezionate.

“A volte, per pretendere una pastorale giovanile asettica, pura, caratterizzata da idee astratte, lontana dal mondo e preservata da ogni macchia, riduciamo il Vangelo a una proposta insipida, incomprensibile, lontana, separata dalle culture giovanili e adatta solo a una elite giovanile cristiana che si sente diversa, ma che in realtà galleggia in un isolamento senza vita n è fecondità. Così, insieme allla zizzania che rifiutiamo, sradichiamo o soffochiamo migliaia di germogli che cercano di crescere in mezzo ai limiti” (Christus Vivit).

Stiamo vivendo un tempo di stagnazione della fede, una specie di apatia spirituale, lo sguardo non ha più orizzonti di speranza se non il proprio rammarico e l’aria irrespirabile dell’autoreferenzialità. Non ci si può illudere che esista un mondo più capace di accogliere il Vangelo che non sia questo. Il rischio che il Vangelo e la vita religiosa rimangano sepolti sotto la valanga dell’indifferenza, del consumismo, del materialismo, è veramente grande.

La Provvidenza, per cambiare le cose passa sempre attraverso la capacità di alcuni uomini di provvedere, di vedere prima e a favore degli altri. Uomini che coltivano una spiritualità non fittizia o abitudinaria ma che sgorga dalle profondità della propria umanità ferita dal peccato, ma che anela e ricerca Dio, come “la cerva anela ai corsi d’acqua”.

Una delle sfide per i religiosi Cavanis, chiamati ad essere capaci di una trasmissione affidabile della fede ai giovani, è quella di passare dalla mentalità di essere “stato di perfezione”, un gradino più in alto, all’umile condivisione delle proprie fragilità. Se un religioso non è una persona umile, serena, innamorata del Cristo, convinta, non convince nessuno. Il Vangelo prima di essere un tesoro da trasmettere agli altri è un tesoro da ricevere dagli altri. Il ricevere e il donare sono la sorgente della felicità cristiana, nella logica del dono di sé in piena libertà. 

 “A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, la carne sofferente degli altri” (EG 270). Siamo chiamati a testimoniare il Vangelo ai giovani con una postura di gratuità e compassione come il buon Samaritano. Il carisma non va inteso come una qualità umana, una particolare abilità. Esso manifesta la bontà del Signore, il suo amore attraverso quelle persone che si lasciano guidare dallo Spirito Santo a servire i più bisognosi. Quando da discepoli a servizio dei giovani si cede al funzionamento della casta, come i farisei e sadducei, invece di servire il Vangelo ci si serve del Vangelo per i propri scopi di realizzazione personale.

Bisogna ripartire dall’Incarnazione, dalla realtà colta nella sua complessità e ambiguità, dalla testimonianza dei veri discepoli di Gesù che non sta in una nuova forma di ritualità ma nella testimonianza di comunione e fraternità (cfr At 2, 42-44), il proprium della vita dei discepoli di Gesù. Una delle caratteristiche del nostro modo di vivere il tempo presente è la sua accelerazione, il passato sembra svanire a vantaggio di un futuro che invade il presente.

In ogni ridimensionamento il tempo gioca un ruolo determinante,  ci sono delle porte da chiudere con coraggio e al tempo giusto e altre da aprire con uguale coraggio e al tempo giusto, (per esempio ai laici). Le porte da chiudere sono quelle del senso di superiorità, della mondanità, della nostalgia del passato, del vittimismo, delle cose “in grande”, delle guerre intestine. Altrimenti non serve aprirne altre.

Nel vero ridimensionamento non va dimenticata la differenza tra ridimensionamento e aggiustamento, tra ridimensionamento e compromesso, tra ridimensionamento e cancellazione. Quanto al numero di religiosi per le “opere” della Delegazione ne abbiamo a sufficienza, quanto al merito non è poi così male. A volte si ha l’impressione che più di qualcuno abbia sempre voglia di “strafare”, questo non è una vera pastorale educativa che ricerca l’efficacia, ma solo l‘efficienza. Perché non siamo ancora stati capaci di coinvolgere i laici? Predomina ancora in Congregazione “la mentalità che separa i preti dai laici, considerando protagonisti i primi ed esecutori i secondi”.

I religiosi non sono testimoni più affidabili dei laici nel modo di vivere e di sperare come cristiani, e nemmeno sono più resistenti alla tentazione della rassegnazione e della comodità. Il vero ridimensionamento è “generare processi più che occupare spazi”, ma non con attitudini e abitudini museali. É resistere alla tentazione di nascondere la propria fragilità invece di assumerla e onorarla, e non guardare indietro, come la moglie di Lot (Gen 19, 26).  È resistere alla tentazione di aver paura della paura, e non cedere alla temerarietà superficiale e spaccona.

É resistere alla tentazione di isolarsi, auto commiserarsi, imboccando la strada del conflitto sterile contro qualcuno, invece di assumere il confronto rispettoso.

È resistere alla tentazione della rassegnazione, questo è il tempo di una fede intesa come “fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede” (Eb 11, 1). É resistere alla tentazione dello scoraggiamento fallimentare: “Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come egli stesso non lo sa” (Mc 4, 27).

P. Diego Spadotto, CSCh

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